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Scavi di Oplontis, bagni al Valle dell'Orso e il Forte di Vigliena

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Scavi di Oplontis, bagni al Valle dell'Orso e il Forte di Vigliena Empty Scavi di Oplontis, bagni al Valle dell'Orso e il Forte di Vigliena

Messaggio  Admin Lun Giu 25, 2012 6:36 pm

"Scavi di Oplontis, bagni al Valle dell'Orso e il Forte di Vigliena", Giugno 2012
http://www.flickr.com/photos/80307130@N03/sets/72157630264096148/
puoi cliccar su slideshow


SCAVI DI OPLONTIS o VILLA IMPERIALE DI POPPEA SABINA
fu scoperta nel 1964, ubicata nella zona detta “delle Mascatelle”.
Gli scavi sono delimitati tra l’ex Real fabbrica d’armi borbonico(attuale Spolettificio) e una strada, che non permettono di effettuare altri lavori di scavi.
La villa è attribuita a Poppea Sabina, la seconda moglie dell’imperatore Nerone.
Questa sfarzosa residenza estiva risulta tra le più grandi e sontuose della romanità.
Possiede ambienti con magnifici pitture parietali che spaziano dal primo al quarto stile pompeiano, giardini e una piscina dalle dimensioni sorprendenti per l’epoca di 60m x 17m.
Inoltre sono stati rinvenuti circa 45 pregevoli pezzi di sculture di marmo bianco di diverse dimensioni.
Dal 1997 il sito archeologico di Oplontis, assieme a quello di Pompeii, è entrato a far parte della lista dei patrimoni dell’umanità dell’Unesco.
Nella zona altri ritrovamenti sono stati effettuati, come la Villa rustica di Lucio Crasso Tertius con 400 anfore vinarie, 33 scheletri umani, pentola di bronzo, 170 monete, un candelabro, unguentari per cosmesi, e pregevoli anelli, orecchini e bracciali.
Poi la Villa di Caio Siculi scoperta durante i lavori di prolungamento ferroviario da Portici a Torre Annunziata e, per ultimo in ordine di scoperta, resti di una probabile terza villa romana di T.Annunziata con resti di tomba e anfore sul luogo dove sorgerà un centro commerciale in Via traversa Andolfi, una strada sterrata al confine con Pompei e Boscoreale.


REAL POLVERIFICIO BORBONICO OPLONTINO
Nel 1757 il re Carlo di Borbone istituì un primo stabilimento adibito alla produzione delle polveri da sparo sfruttando l’energia idraulica grazie alle acque di uno dei canali minori del fiume Sarno, anche in caso di emergenza.
In seguito si realizzò la prima Real Fabbrica d’armi di tutto il Regno di Napoli voluto dallo stesso Carlo, il cui disegno fu eseguito dall'architetto Francesco Sabatini della scuola vanvitelliana e completata, non secondo il progetto originale, dall’insigne architetto Ferdinando Fuga.
Furono fabbricati armi di lusso ritenute più belle e di qualità superiore rispetto a quelle fabbricate in Inghilterra e in Francia.
Si dispose, successivamente anche la costruzione di una Regia Ferriera nel 1791 per la fornitura di parte della materia prima, e più tardi, nel 1842, il Ferrodotto borbonico.
Nel 1823, i Borbone fecero realizzare il Museo storico delle armi all’interno di una delle sale, detta Sala Borbonica. A causa delle esplosioni accidentali del 1851 e del 1856, che provocarono morti, feriti e danni anche alle abitazioni civili, nel 1857 Ferdinando II di Borbone decise di far trasferire l'impianto per le polveri da sparo in un luogo più sicuro, a Scafati, dove tutt’ora è visitabile lo splendido edificio ristrutturato, con la cappella S.Barbara, protettrice degli artiglieri, dei minatori etc, con i capannoni di produzione nel distante retroterra.
Nel luglio 1977 lo stabile di Torre A. divenne Spolettificio militare per le spolette.
Le spolette sono dei congegni contenenti polvere atte a far esplodere i colpi delle armi. Nel 2010 ci furono le ultime richieste di commesse di produzione e cè il rischio di chiusura dello storico edificio.
Il museo storico d’armi è visitabile durante la festa del 22 Ottobre in onore di Maria SS. della Neve, per ricordare l’evento prodigioso avvenuto nel 1822 dello stesso giorno, ad opera della Madonna che cessò la pesante minaccia della colata lavica, cenere e lapilli che si abbatterono per due giorni sulla città oplontina.
http://www.naclerio.it/sabbianera/spolette.htm


TERME OPLONTINE
In passato, a Torre Annunziata, esistevano ben 4 stabilimenti termali:
-Terme Manzo,
-Terme Montella,
-Terme Filangieri
-Terme Vesuviane http://www.termevesuviane.com/#


ACQUE MINERALI OPLONTINE
In passato in territorio comunale di Torre Annunziata sgorgavano 9 sorgenti di acque minerali:
-Acqua Santa Lucia
-Acqua Filangieri
-Acqua Cestilia
-Acqua Nathanson Duché & Co.
-Acqua Dati
-Acqua Minerva
-Acqua Vesuviana Nunziante
-Acqua Oplontina
-Acqua Montella


FERROVIE OPLONTINE
--Torre A.-C.mmare-Gragnano, 10+455km (SECONDA IN ITALIA, prolung.Napoli-Portici)
http://www.lestradeferrate.it/mono4.htm
--raccordo T.Annunziata C.le- T.Annunziata Marittima
http://www.lestradeferrate.it/mono28a.htm
--T.Annunziata-Cancello
http://www.lestradeferrate.it/mono14.htm


CURIOSITA’ OPLONTINE:
--Nel 1920 la grande Torre Annunziata, all’epoca LA 2’ CITTA’ DELLA CAMPANIA per popolazione e sviluppo, cedette al costituendo comune di Pompei frazioni che corrispondono adesso agli interi scavi archeologici di Pompei fino al Santuario della beata Vergine del Santo Rosario.
--Torre Annunziata, in passato, per le industrie metalmeccaniche presenti sul porto, come la Deriver e Dalmine, fu appellata la “Manchester del Sud. Oggi ospitano industrie nautiche e farmaceutiche.
--Torre Annunziata in passato è stata famosa per la produzione e l’esportazione della pasta nel mondo, tale da essere definita “Città dell’arte bianca”.
I primi molini e pastifici nacquero nel XVIsecolo ad opera del conte Muzio Tuttavilla.
Le aziende ne contavano oltre 30.
Nel 1955 subì la forte crisi di concorrenza e da allora in declinio. Ad oggi si conta solo l’azienda Setaro.
http://www.naclerio.it/sabbianera/pasta.htm
--Le cartiere anche a Torre Annunziata, sorte attorno al 1730 per volere del conte Massarenghi, sfruttando l’energia idraulica del fiume Sarno.
--Saline Erculee, lungo la costa verso la foce del Sarno sorgeva il pago delle saline, cioè il sobborgo delle cave di sale, il sito attualmente è chiamato rione La Saliera; il toponimo si è mantenuto nel tempo.
--Petra Herculis, antico nome col quale era chiamato l'odierno Scoglio di Rovigliano, un isolotto di pietra calcarea al largo della fascia di costa di Torre Annunziata nei pressi della frazione di Rovigliano.
È vicino allo scoglio che si tramanda essere stata trovata l'icona della Madonna della Neve.


Il MIGLIO D’ORO
il cui origine risale al 1738 quando re Carlo di Borbone, durante la visita alla villa dell’austriaco Maurizio di Lorena, principe d’Elboeuf, situata sulla riviera vesuviana, rimase incantato dalla bellezza del paesaggio e dalla mitezza del clima. Così si fece costruire la reggia a Portici, opera del grande architetto Antonio Canevari ( autore della reggia di Capodimonte). Era nello stesso anno in cui re Carlo fece effettuare la prima campagna di scavi per riportare alla luce i resti della vicina antica città di Ercolano.
Quindi il prestigio della presenza della dimora reale, lo stupore delle antiche vestigia romane, il panorama che spaziava su tutto il golfo di Napoli con vista su Capri, Ischia e Procida e la rigogliosa selva digradante tra il mare e il vesuvio convinsero gli aristocratici napoletani a trasferirsi, anche per i periodi di villeggiatura, lungo la riviera vesuviana facendosi costruire ville e giardini di stile rococò, neoclassico o barocco da architetti di calibro quali Ferdinando Fuga, Domenico Antonio Vaccaro, Ferdinando Sanfelice, Luigi Vanvitelli, Francesco Solimena, Giovanni Antonio Medrano, Bernardo Quaranta e Mario Gioffredo. Le ville erano concentrate per lo più sulla via borbonica denominata all’epoca strada regia delle calabrie, odierna SS18 Tirrena inferiore.
Tale strada rettilinea all’epoca venne definita Miglio d’oro.
Detto Miglio perché secondo il sistema di unità di misura di allora c’era un tratto di strada perfettamente rettilineo la cui lunghezza misurava esattamente un miglio, precisamente dalla Villa Aprile(attuale hotel Miglio d’oro) in corso Resina di Ercolano fino al gran caffè Palumbo nei pressi della villa comunale di Torre del Greco. In seguito questa definizione così precisa si perse e i confini del miglio si estese comprendendendo S.Giovanni a Teduccio, San Giorgio a Cremano, Portici, Ercolano e tutto il territorio di Torre del Greco a est compreso la villa delle Ginestre che si trova più su verso il vesuvio. E’ detto d’oro per le vedute paesaggistiche, delle numerose e splendide ville aristocratiche e del fascino delle scoperte archeologiche.
Purtroppo il Miglio d’oro da decenni si sente fortemente minacciato dalla speculazione edilizia incontrollata e cresciuta a dismisura, e le stesse ville vesuviane sono tenute in condizioni pietose. Per questo motivo lo Stato, nel 1971, isituì un ente detto Ente per le ville vesuviane, allo scopo appunto di provvedere alla conservazione, al restauro e alla valorizzazione dell’inestimabile patrimonio artistico-architettonico delle ville. Grazie all’Ente se ne sono state salvate, ristrutturate e riportate all’antico splendore la villa Campolieto, villa Ruggiero, villa Favorita, palazzo Vallelonga, villa Vannucchi, villa Letizia, villa Bruno etc, e sono 122 le ville censite e tutelate dall’Ente.
il Miglio d’Oro


VILLA DELLE GINESTRE
è passata alla storia per aver ospitato il celebre poeta Giacomo Leopardi di Recanati.
Fù ospite nella villa presso l’amico Antonio Ranieri, da agosto 1836 a febbraio 1837.
La villa venne offerta da un cognato di Antonio Ranieri perché concedesse al poeta Leopardi di respirare aria salubre torrese, sfuggendo da Napoli dove era in corso l’epidemia di colera.
Il poeta ammirò l’ambiente vesuviano dal quale trasse l’ispirazione componendo le due famose opere letterarie:
“La Ginestra” e
“Il Tramonto della Luna”.
All’epoca di Leopardi la struttura era semplicemente una casa di campagna.
Fu trasformata, nel 1907, in Villa dai Carafa, aggiungendovi al piano terra e per tutti e tre lati, il portico trabeato di colonne doriche e la grande terrazza soprastante.
L’area, per ricordo dell’ospitalità dell’illustre poeta, venne chiamato Leopardi, una contrada di S.Maria La Bruna.
Villa delle Ginestre leopardiana
http://www.comune.torredelgreco.na.it/download/1citta-leopardiana.doc


FORTE DI VIGLIENA (MONUMENTO NAZIONALE)
eretto nel 1702 per volere del marchese di Villena, da cui Vigliena, è dichiarato monumento nazionale dall’8 Dicembre del 1891 dall’onorevole Imbriani ed altri deputati del Parlamento in ricordo della celebre battaglia e del drammatico episodio avvenuto tra le sue mura all’alba del 13 Giugno 1799.
Successe che i circa 150 patrioti napoletani e non, vi si erano asserragliati all’interno del Fortino e, non riuscendo più a resistere, dopo due giorni di strenua difesa, all’avanzata in città dei sanfedisti, si fecero saltare in aria per non cadere nelle mani dei nemici.
Non tutti sono concordi circa le cause dello scoppio: per alcuni la responsabilità è dei rivoluzionari stessi che, dopo averlo minato, non fecero in tempo ad allontanarsene; per altri, invece, si è trattato di un incidente; altri infine sostengono la versione riportata dal Colletta, secondo la quale il prete Antonio Toscano, capo del presidio, rimasto da solo a combattere i reazionari, pur di non consegnarsi ai nemici, ferito, e si avvicinano alla polveriera per darle fuoco.
Tale edificio, che era ubicato alle porte della città di Napoli, fu l’ultimo baluardo della resistenza nella rivoluzione Partenopea del 1799 da parte dei patrioti repubblicani contro le truppe sanfediste del cardinale Fabrizio Ruffo che erano risaliti dalla Calabria per riportare in trono i Borbone.
Il Forte, col ruolo di difesa costiera, era di forma pentagonale e misurava 6m di altezza dal lato della spiaggia e circa 5m dal lato opposto.
Intorno aveva un fossato largo 9m e profondo 6m quanto l’edificio che appariva come interrato.
Inoltre era dotato di 7 grossi cannoni rivolti verso il mare e di piccole bocche da fuoco verso terra.
Questo monumento nazionale da moltissimo tempo è in avanzato stato di abbandono.
E’ diventato completamente impraticabile e malsana che necessiterebbe di un'opera di bonifica.
Fu adibito a poligono di tiro, poi discarica rifiuti, rifugio di tossicodipendenti e cimitero di carcasse di animali.
Si è parlato in passato della realizzazione di un parco archeologico del Forte di Vigliena.
Vi è un acquerello che ritrae il Forte, disegnato dal pittore Domenico Cimatti e conservato al Museo di San Martino.
acquerello del Forte
http://museosanmartino.campaniabeniculturali.it/itinerari-tematici/galleria-di-immagini/OA1000082
breve video del Forte di Vigliena in pessime condizioni
http://corrieredelmezzogiorno.corriere.it/napoli/notizie/cronaca/2010/23-marzo-2010/forte-vigliena-monumento-1799-cimitero-cani-1602705006251.shtml
S.Giovanni a Teduccio, Forte di Vigliena (storia)
http://it.wikipedia.org/wiki/Forte_di_Vigliena


FORTE DI VIGLIENA LEGATA ALLA STORIA DELLA
REPUBBLICA NAPOLETANA O REPUBBLICA PARTENOPEA DEL 1799
Nel 23 gennaio 1799, a seguito dell’invasione a Napoli dell’esercito francese comandato dal generale Jean Etienne Championnet, che aveva sbaragliato le truppe borboniche guidate dal generale austriaco Karl Von Mack, fù proclamata dai patrioti giacobini filofrancesi, la Repubblica Partenopea o Repubbliba Napoletana, sull’esempio della repubblica francese nata nel 1792 a seguito della rivoluzione francese del 1789.
I patrioti avevano creato precedentemente due società segrete rivoluzionarie, quali il Reomo(repubblica o morte) e il Liomo(libertà o morte).
Entrambe vennero scoperte dalle milizie borboniche e seguirono i primi 52 arresti e le prime 3 condanne a morte. Nonostante ciò i patrioti cospirarono contro la monarchia borbonica per diffondere i principi della libertà, uguaglianza e fratellanza.
Ferdinando IV di Borbone, dopo un periodo di politica neutrale grazie al fiducioso ministro degli affari esteri Bernardo Tanucci, che aveva tenuto il regno lontano dagli eventi bellici, vedendo nei francesi un pericolo serio, sfuggì assieme alla famiglia reale a Palermo nel 23 Dicembre del 1798 imbarcandosi sulla nave inglese Vanguard dell’ammiraglio Orazio Nelson.
A Napoli rimase il generale Francesco Pignatelli e i lazzari o lazzaroni, giovani di ceto basso, lasciati soli al loro destino che si batterono strenuamente per tre giorni contro i sanfedisti.
La Repubblica Partenopea ebbe vita breve ma intensa, durò solo 5 mesi dal 22 Gennaio 1799 al 13 Giugno 1799.
Venne nominato il governo provvisorio composto da 25 membri e presieduto prima da Carlo Lauberg poi da Ignazio Cjaia, ed era articolato in 6 comitati: centrale, militare, legislazione, polizia generale, finanza e amministrazione interna. La repubblica aveva adottato come bandiera il tricolore azzurro, oro e rosso, ove l’oro e il rosso rappresentavano i colori di Napoli.
Si elaborava un progetto di Costituzione ispirandosi appunto ai principi della libertà, uguaglianza e fratellanza, le tre basi dei diritti dell’uomo, ma a causa delle battaglie vinte dai sanfedisti, non si fece in tempo di attuare leggi a favore della democrazia a cui stavano lavorando personaggi intellettuali come giuristi, avvocati e letterati quali Mario Pagano, Domenico Cirillo, Pietro Colletta,Vincenzo Cuoco etc.
Tra le file dei repubblicani c’erano anche dei nobili disposti a rinunciare ai loro privilegi e a sostenere le idee liberali.
Per veder attuare quei principi e valori dell’umanità bisognava aspettare un secolo e mezzo con la nascita della repubblica italiana costituita nel 1948.
Ricordiamo, tra i martiri, i maggiori cospiratori antimonarchici: Vincenzo Porta, Luisa Sanfelice, Ferdinando Ferri, Eleonora Pimentel Fonseca, Domenico Cirillo, Mario Pagano, Giuseppe Serra di Cassano, Melchiorre Delfico, Vincenzo e Andrea Vitaliani, Emmanuele De Deo, Vincenzo Galiani, Gabriele Manthonè, Giuseppe Riario Sforza, Vincenzo Russo, Pasquale Baffi, Cesare Paribelli, Leonardo Albanese e Ignazio Cjaia.
https://www.youtube.com/watch?v=oH4cC6Q-oU8&feature=related parte I
https://www.youtube.com/watch?v=uQEtds0_7eM&feature=related parte II
https://www.youtube.com/watch?v=Yp6djHn_cls&feature=related parte III


I SANFEDISTI DELLA RIVOLUZIONE PARTENOPEA; CHI ERANO?
erano contadini e briganti meridionali, guidati dal potente cardinale Fabrizio Ruffo di Bagnara.
Il cardinale, ponendosi al servizio dei Borbone, formò la cosiddetta Armata sanfedista o esercito della Santa Fede per annientare i rivoluzionari liberali di ispirazione francese e riportare il regno di Napoli in mano ai Borbone. Il 7 Febbraio del 1799 i primi 17mila sanfedisti si radunarono all’arrivo del cardinale sbarcatosi a Pizzo Calabro, e si mossero dalla Calabria. Tra le file sanfediste, c’erano bande di corrotti, forti dell’immunità promessa dal cardinale per ogni sorta di reato, si diedero a saccheggi e violenze lungo le loro avanzate.
Il 13 giugno, dopo aver occupato Puglia e Basilicata, riuscirono a entrare nella città di Napoli grazie all’appoggio dell’esercito navale inglese al comando dell’ammiraglio Horatio(Orazio) Nelson, e travolsero la resistenza dei patrioti-giacobini. Gli inglesi e i Borbone erano alleati sin dal 1793 grazie alla cosidetta Lega anglo-napoletana. I rivoluzionari filofrancesi persero la battaglia perché la presenza delle truppe francesi venne a mancare in seguito alle sconfitte subite da altre truppe francesi impegnate nel nord Italia contro gli austro-russi, e quindi in ritirata. Nei confronti dei superstiti giacobini, che si erano trincerati nei castelli di Napoli, dopo una disperata resistenza al ponte della Maddalena prima e forte di Vigliena poi, il cardinale Ruffo concordò un patto di resa che avrebbe garantito la salvezza dei repubblicani
napoletani ritirandosi in esilio, ma l’ammiraglio Nelson, complice la moglie di Ferdinando IV, Maria Carolina d’Asburgo-Lorena, violò il patto sottoscritto, lasciando andare via i soldati francesi e consegnando però gli oppositori antiborbonici nelle mani di Ferdinando IV ristabilitosi a Napoli l’8 luglio, dopo 5 mesi della prima occupazione francese. Vennero imprigionati circa 8mila tra rivoluzionari, giacobini, filofrancesi e patrioti.
Venne istituito appositamente un tribunale speciale per processi politici sommari eseguiti già prima della caduta della repubblica, dal 1Giugno 1799 a 11Settembre 1800. Su 8mila arrestati, solo124, compreso i maggiori esponenti, vennero condotti al patibolo sia in piazza Mercato a Napoli, luogo storicamente deputato alle esecuzioni, sia in piazza dei Martiri a Procida, 288 alla deportazione, 222 all’ergastolo e 67 in esilio, i restanti vennero rilasciati. Mentre l’ammiraglio Francesco Caracciolo, ex ufficiale della marina borbonica, fù impiccato all’albero maestro della nave di Nelson, per l’alto tradimento nei confronti dei Borbone perché si era aderito, dopo aver pure scortato i fuggitivi regnanti a Palermo, alle idee liberali.
Anche la ex marchesa Eleonora Pimentel Fonseca, che inizialmente frequentava l’ambiente di corte reale, fù impiccata e non decapitata, prerogativa dei nobili, in quanto le venne tolta il titolo nobiliare riconosciutale dallo stesso re Ferdinando IV, per aver pubblicato i giornali antiborbonici. Un’altra celebre vittima della vendetta borbonica fù la nobildonna Luisa Sanfelice, l’ultima della lista ad essere sopposta all’esecuzione. Fù denunciata per aver collaborato coi repubblicani, peraltro figlia di un generale borbonico, e nonostante la sua giovane età e bellezza non venne perdonato dai Borbone. Divenne la protagonista di uno dei romanzi del celebre scrittore francese Alexandre Dumas.


PERSONAGGI ILLUSTRI LEGATI ALLA STORICA PIAZZA MERCATO-PIAZZA DEL CARMINE DI NAPOLI (UN TEMPO TUTT’UNA PIAZZA)
(giustiziati) :
Masaniello, Corradino di Svevia, Luisa Sanfelice, Eleonora Pimentel Fonseca, Frà Diavolo, Francesco Mario Pagano


CORRADINO DI SVEVIA (ULTIMO DELLA IMPORTANTE CASATA degli HOHENSTAUFEN)
DECAPITATO IN PIAZZA MERCATO ALL’ETA’ DI 16 ANNI
Corrado V di Svevia, detto Corradino, era nipote del celebre imperatore Federico II, fu duca di Svevia, re di Sicilia e re di Gerusalemme dall’età di 2 anni.
Fu l’ultimo della casa reale tedesca degli Hohenstaufen.
Appena sedicenne, fu catturato dagli angioini a Torre Astura, località del litorale laziale nei pressi di Nettuno, e fu decapitato, per ordine del re Carlo I d’Angiò, il 29 Ottobre 1268, nell’odierna Piazza Mercato.
Il suo corpo fu trascinato verso il mare, a pochi passi dal luogo del supplizio, e solo grazie alla disperazione della madre si ottenne la degna sepoltura dentro la Basilica S.Maria del Carmine Maggiore, dove tutt’ora cè la scultura che riproduce il piccolo Corradino in piedi col vestito da principe.
Il luogo esatto della decapitazione sarebbe avvenuta nell’odierna Piazza Mercato dove oggi cè la chiesa S.Croce e Purgatorio, al cui interno conserva la colonna in porfido che rappresenterebbe il luogo dell’esecuzione, e conserva anche il ceppo che si pensa essere quello sul quale Corradino fu decapitato.
La tragica fine dell'ultimo degli Svevi commosse letterati e artisti di ogni tempo. Nacquero anche due leggende legate al giorno della sua decapitazione. Una prima versione vuole che Corradino, affrontando con coraggio la sua sorte, gettasse tra la folla un guanto prima di essere decapitato.
Questo guanto sarebbe stato raccolto da Giovanni da Procida, medico e consigliere di Federico II, che poi sarebbe stato tra gli animatori dei Vespri Siciliani, che era la rivolta che sottrasse la Sicilia agli angioini per metterla sotto il dominio aragonese.
Altra leggenda vuole che, ad esecuzione avvenuta, un'aquila (simbolo degli svevi) piombasse dal cielo per intingere un'ala nel sangue di Corradino per poi volare verso il Nord, per presagio di vendetta.
Si dice che il bellissimo Corradino avesse una relazione omosessuale col suo coetaneo cugino Federico di Baden, i iquali condivisero gli ultimi loro momenti dentro la prigione del castel dell’Ovo, prima della fatale notizia della condanna a morte.
Il poeta Dante Alighieri ricorda Corradino nel canto XX del Purgatorio, cosiccome per suo zio Manfredi, nel canto III del Purgatorio ucciso sempre dallo stesso re angioino a Benevento, dove viene ricordato attraverso una lastra di bronzo che si nota ancora oggi accanto al ponte Vanvitelli.
Durante la II guerra mondiale, nel Settembre del 1943, i soldati tedeschi, per ordine del dittatore Hitler che era venuto a Napoli in visita, dovevano portar via dalla chiesa le ossa mortali di Corradino ma non ci riuscirono perché le ossa erano nascoste all’interno del piedistallo della statua e non dietro il piedistallo come la lapide intendeva recitare.
statua di Corradino nella Basilica S.Maria del Carmine Maggiore
http://it.wikipedia.org/wiki/Corradino_di_Svevia


MASANIELLO
Napoli è legata a uno dei personaggi più popolari del panorama folkloristico partenopeo:
il pescivendolo Tommaso Aniello di Cicco d’Amalfi(cognome), meglio conosciuto come Masaniello.
Masaniello aveva capeggiato la rivolta che fu scatenata dall’esasperazione delle classi più umili come lui, per le gravose tasse o gabelle, applicate dal vicerè Rodrigo Ponce(ponz) de Leòn, duca d’Arcos, sugli alimenti di prima necessità, soprattutto sulla frutta.
La ribellione di Masaniello a Napoli, che faceva come principale attività il contrabbandiere per evadere le tasse, durò 10gg, dal 7-16 Luglio 1647.
I moti insurrezionali ebbero inizio la Domenica 7Giugno quando Masaniello e suo cognato puteolano Maso Carrese, nei pressi della chiesa S.Eligio inscenarono una sommossa contro le sempre più pressanti gabelle sulla frutta.

Il grido con cui Masaniello sollevò il popolo fu
“VIVA IL RE DI SPAGNA E MORA(abbasso) LO MAL GOVERNO”,

con ciò si poteva sperare la difesa dei propri diritti nel sovrano Carlo V di Spagna, popolarmente chiamato Colaquinto, contro le ingiustizie perpetrate dagli arroganti gabellieri, che erano a sua volta al servizio degli oppressori vicerè spagnoli per loschi guadagni e per riempire le casse di Madrid con lo scopo di finanziare le guerre contro la Francia, contro la guerra dei 30anni, contro la rivolta siciliana, contro la rivolta dei Paesi Bassi e contro la Sollevazione della Catalogna.
Colui che spinse Masaniello a farsi interprete dell’insurrezione popolare, fu don Giulio Genoino, un vecchio sacerdote ed insigne giurista che cadde in disgrazia una ventina d’anni prima perché tentò una prima sollevazione popolare con l’intento di equiparare i diritti del popolo con quelli dei nobili.
Quindi fu lui la guida della mente rivoltosa di Masaniello.
L’ira popolare si abbattè contro i nobili e borghesi e furono commessi ogni sorta di delitti.
I popolani o lazzari, capeggiati da Masaniello, invasero il palazzo del vicerè sbaragliando i soldati spagnoli, devastarono gli uffici daziari bruciandone i registri delle imposte e liberarono dai carceri tutti quelli che erano stati accusati di evasione e di contrabbando.
Furono distrutte anche le case degli infami gabellieri, primo fra tutti Girolamo Letizia, che aveva fatto arrestare la moglie di Masaniello, Bernandina Pisa, per aver introdotto in città una calza piena di farina evadendo il dazio.
Per ottenerne il rilascio, Masaniello fu costretto a pagare un riscatto di cento scudi, che racimolò indebitandosi, e fu rilasciata dopo 8 giorni di prigionia.
Secondo la tradizione, fu proprio questo episodio a scatenare in lui il desiderio di vendicare la popolazione dagli oppressori.
Il vicerè Rodrigo, scampato miracolosamente alle furiose aggressioni degli insorti nei suoi confronti al palazzo, si rifugiò prima al Castel Sant’Elmo poi al Castel Nuovo.
Da qui il vicerè, vedendo in Masaniello un personaggio sempre più pericoloso, invadente e scomodo, scrisse un messaggio all’arcivescovo Ascanio Filomarino in cui prometteva l’abolizione di tutte le imposte più gravose.
Il popolo di Masaniello ottenne l’abolizione delle gabelle, mentre il suo braccio armato Giulio Genoino puntava su un progetto rivoluzionario che sognava da tempo, chiedere allo stesso vicerè che venga ripristinato un vecchio privilegio che era stato concesso alla fedelissima città di Napoli dal predecessore di Carlo V, il re Ferdinando il Cattolico nel lontano 1517.
La copia del privilegio, che avrebbe dovuto sancire per il popolo una rappresentanza uguale a quella dei nobili, oltre alla riduzione ed equa ripartizione delle tasse tra le classi sociali, fu consegnata dagli spagnoli all’arcivescovo Ascanio Filomarino, che la consegnò a Masaniello, e quindi a Genoino.
Nella 4’ giornata di rivolta, dopo la lettura in pubblico dei capitoli del privilegio nella Basilica del Carmine,
Masaniello fu nominato Capitano Generale del Fedelissimo Popolo di Napoli.
Ciò portò a procurarsi però molti nemici, tra cui il duca di Maddaloni Diomede Carafa, il quale aveva mandato il famigerato bandito Perrone per eliminarlo, ma l’attentato fallì, e il bandito fu decapitato.
Il Capitano generale fu invitato più volte al palazzo del vicerè assieme alla moglie Bernandina, da cui scendeva carica di doni preziosi.
La bella Bernandina, in uno degli incontri con la viceregina le disse: vostra Eccellenza è la viceregina delle signore, io sono la viceregina del popolo.
I loro vestiti non erano più quelli miseri ma abiti da nobili.
In uno di questi incontri, alla presenza del duca d’Arcos, a causa di un improvviso malore Masaniello perse i sensi e svenne, iniziando a manifestare i primi sintomi di quell'instabilità mentale che gli avrebbe poi procurato l'accusa di pazzia.
La pazzia di Masaniello fu presumibilmente causata dalla roserpina, un potente allucinogeno somministratogli durante uno dei banchetti nel palazzo.
Potrebbe anche essere stata colpa della rapida ascesa al potere che avrebbe mutato improvvisamente il comportamento di un pescivendolo, facendogli trovare di fronte all'incapacità di gestire grandi responsabilità di comando.
Al culmine del suo potere commise numerosi atti di follia e segni di squilibrio, tra cui il lancio del coltello tra la folla, le interminabili galoppate, i tuffi notturni nel mare e l'insistere nel progetto strampalato di trasformare piazza del Mercato in un porto, e di costruirvi un ponte per collegare Napoli alla Spagna.
Ordinò anche diverse esecuzioni sommarie dei suoi oppositori, compresa quella di un bandito verso il quale Genoino gli chiese di essere clemente.
Ormai Genoino era consapevole di aver perso ogni influenza sul Capitano generale e sulla rivoluzione.
La popolazione cominciò a non vederlo di buon occhio e si diffuse anche la voce che Masaniello intrattenesse una relazione omosessuale con suo amico e segretario di 16 anni.
Il potere di Masaniello non ha più ragione di esistere.
Il 13 luglio il viceré giurò solennemente sui capitoli del privilegio nel Duomo di Napoli e il popolo era riuscito ad imporre le proprie rivendicazioni al governo spagnolo.
Questo successo, a cui Masaniello aveva contribuito più di tutti, non lo risparmiò dall'ostilità di alcuni suoi ex-compagni di lotta, tra cui Genoino che di nascosto tramava la sua eliminazione.
Quel popolo che lo aveva voluto a corte, poco più tardi lo condannò girandogli le spalle proprio nel momento del bisogno.
Quello stesso popolo lo piangerà amaramente quando si rese conto di aver perso un punto di riferimento, una guida.
Si sentirono soli e indifesi.
Il 16 luglio 1647, giorno di ricorrenza della festa della Madonna del Carmine, il capopopolo si affacciò dalla finestra di casa sua e cercò inutilmente di difendersi dalle accuse di pazzia e tradimento che provenivano dalla strada, e pronunciò la frase rimasta proverbiale: « popolo mio, tu ti ricordi, come eri ridotto?».
Sentendosi braccato, cercò rifugio nella Basilica del Carmine e qui, interrompendo la celebrazione della messa, pregò l'arcivescovo Filomarino di poter partecipare insieme a lui e al viceré alla tradizionale cavalcata in onore della Vergine, prima di morire. Poi salì sul pulpito per tenere il suo ultimo discorso ricordando al popolo i vantaggi ottenuti con il suo potere (tradotto in italiano):

“AMICI MIEI, POPOLO MIO, GENTE:
voi credete che io sia pazzo e forse avete ragione voi: io sono pazzo veramente.
Ma non è colpa mia, sono stati loro che per forza mi hanno fatto impazzire!
Io vi volevo solo bene e forse sarà questa la pazzia che ho nella testa.
Voi prima eravate immondizia ed adesso siete liberi.
Io vi ho resi liberi.
Ma quanto può durare questa vostra libertà? Un giorno?! Due giorni?!
Eh già, perché poi vi viene il sonno e vi andate tutti a coricare.
E fate bene: non si può vivere tutta la vita con un fucile in mano.
Fate come Masaniello: impazzite, ridete e buttatevi a terra, perché siete padri di figli.
Ma se invece volete conservare la libertà, non vi addormentate!
Non posate le armi! Lo vedete?
A me hanno dato il veleno e adesso mi vogliono anche uccidere.
Ed hanno ragione loro quando dicono che un pescivendolo non può diventare generalissimo del popolo
da un momento all'altro.
Ma io non volevo far niente di male e nemmeno niente voglio.
Chi mi vuol bene veramente dica per me solo una preghiera: un requiem soltanto quando sarò morto.
Per il resto ve lo ripeto: non voglio niente.
Nudo sono nato e nudo voglio morire. Guardate!!”

Dopo essersi spogliato ed essere stato deriso dai presenti fu invitato a calmarsi dall'arcivescovo e fatto accompagnare in una delle celle del convento dei frati carmelitani.
Qui venne raggiunto da 5 ex-collaboratori di Masaniello corrotti dagli spagnoli. Masaniello aprì la porta della cella e fu ucciso, con una serie di archibugiate, all’età di 27 anni, il 16 Luglio 1647.
Il corpo fu decapitato, trascinato per le strade e gettato in un fosso, o vicino ai rifiuti, tra Porta del Carmine e Porta Nolana, mentre la testa fu portata al viceré come prova della sua morte.
Il giorno dopo il popolo si accorse che con la morte del pescatore i tanto sofferti miglioramenti ottenuti durante la rivolta erano svaniti.
Gli assassini furono così ampiamente ricompensati dalla corona di Spagna ed ottennero anche il privilegio di nobiltà.
I resti mortali di Masaniello furono successivamente ricomposti e, a due giorni dalla morte, il 18 Luglio, ci fu una cerimonia funebre.
Il corteo funebre uscì dalla Basilica del Carmine seguito da una moltitudine di persone, mentre da tutte le finestre venivano esposte coperte e lumi come tributo d'onore.
Il feretro, avvolto in un lenzuolo di seta bianco e di velluto nero, con alla destra una spada ed alla sinistra il bastone di capitano generale, fu portato in processione per la città quasi si trattasse delle spoglie di un santo.
Dopo aver attraversato via Toledo, passando di fronte al Palazzo Reale, il duca d'Arcos ordinò di abbassare le bandiere spagnole in segno di lutto.
Alla fine del corteo, le sue spoglie furono degnamente sepolte nella Basilica del Carmine.
La moglie Bernandina, rimasta sola, per mangiare si diede al mestiere più vecchio del mondo: a fare la prostituta e che fu derubata e picchiata per sfregio dai soldati spagnoli, suoi clienti.
Morì di peste del 1656.
I due, Masaniello e Bernandina si erano sposati nel 1641 quando lei aveva 16 anni e lui 21 anni.

A distanza di 152 anni dalla morte, dopo la Rivoluzione del 1799, restaurato il potere monarchico borbonico, fu ordinata la distruzione della tomba di Masaniello e la dispersione delle sue ossa per volere del re Ferdinando IV, al fine di distruggere il ricordo della vecchia rivoluzione del 1647.
Masaniello, colui che aveva messo in questione il governo spagnolo a Napoli, fu definito il precursore delle successive rivoluzioni, divenne il simbolo della libertà, un eroe, e il suo mito attraversò Francia, Inghilterra e Polonia.
Divenne quasi un santo, infatti gli si strapparono i capelli come reliquia da parte dei suoi seguaci o devoti in lui.
Ciò che resta di Masaniello è una lapide nella chiesa del Carmine Maggiore, una statua nel chiostro e numerosi dipinti del suo ritratto, realizzati da artisti noti.
Per molto tempo si è creduto che Masaniello fosse originario di Amalfi, in realtà nacque a Vico Rotto al Mercato, uno dei vicoli che circondano piazza del Mercato a Napoli, nel 29 Giugno 1620, dal pescatore Francesco d’Amalfi e dalla massaia Antonia Gargani.
All'origine di questo equivoco c'è quel d'Amalfi, che è semplicemente il cognome, ma che è stato tradizionalmente interpretato come un riferimento al luogo d'origine del capopopolo.
Lo abbiamo visto ritratto o disegnato in svariati modi, nessuno sa veramente quale fosse la sua vera figura, il suo vero volto.
Molto probabilmente era basso di statura, bruno di carnagione, capelli castani con un piccolo codino dietro la testa e, appena visibili, un paio di baffetti che molti contemporanei dicono biondi.
Vestiva sempre con abiti da umile pescivendolo: camicia e calzoni di tela con un cappello rosso alla marinara e camminava sempre scalzo. Solo durante il periodo del suo “regno” lo si vedeva in abiti bianchi con un coltello o un piccolo bastone tra le mani.
Aveva due fratelli minori e una sorella.
Il 7 luglio 1997, in occasione del 350° anniversario della sommossa popolare, il Comune di Napoli ha posto un'iscrizione a Vico Rotto in onore di Masaniello.

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